martedì 19 ottobre 2010

LA RESISTENZA è LA DIFFERENZA

Quando ero piccola, la mamma m’indottrinava in ogni azione quotidiana che, per stare a galla in questo strano mondo, dovevo essere brava a scuola, dovevo essere a modo, dovevo andare a messa, dovevo non parlare con gli sconosciuti, dovevo pensare solo a me stessa, dovevo ambire a diventare qualcuno. 

E al liceo il mio professore d’italiano mi condannava quando le poche volte che alzavo il braccio per un intervento, sosteneva che le mie parole suonavano troppo di ribellione al regime scolastico mentre sullo sfondo i miei compagni di classe se la ridevano sotto i baffi appagando l’autorità. 

L’ultimo giorno degli esami di maturità ho fatto un pessimo orale annientata da una professoressa esterna che nulla sapeva di me e di quali fossero i miei sentimenti e i miei sogni da adolescente, perché troppo impegnata a volersi sentir dire la bella pappardella scritta sui libri e subito dopo sono scappata da quella scuola con la rabbia e le lacrime agli occhi. 

Un mese e mezzo più tardi mi trovavo su un lungo treno che mi avrebbe portato a Perugia, dove avrei fatto il primo anno di Università e dove ci sarei rimasta per altri otto anni.

Si, sono scappata. Avevo voglia di volare altrove per scoprire se esisteva un’alternativa a quello che avevo vissuto fino allora. È stato un percorso lungo e pieno di ostacoli, ma liberatorio, un cammino dove ho avuto quella fortuna di confrontarmi-scontrarmi con diverse realtà, come l’università, la convivenza, il doversela cavare da sola, la gente da ogni parte del mondo, il lavoro traballante, le persone sbagliate, le istituzioni, il vivere all’estero ed essere trattata da immigrata, le porte in faccia, la paura di non riuscire a stare a galla.

Oggi ho ventisette anni e quello che sono è frutto di questo confronto scontro. E sono contenta così perché, nonostante sono disoccupata e nullatenente e che mi dicano che ho una laurea che non vale poco di niente, che le prospettive di trovare un impiego sono nulle, che il mondo va a rotoli, che la crisi incombe, che i giovani non hanno futuro, sono convinta di una cosa, che la Differenza è la Resistenza. 

Questo semplice slogan rimbomba tanto nella mia mente da trasmettermi la forza di essere e resistere quando mi ritrovo in un labirinto d’insidie dal quale sarebbe più facile uscire se mi mettessi a correre, se tenessi gli occhi chiusi, se non riflettessi sul da farsi, se eseguissi quello che mi è stato imposto da qualcun altro. Ma io non ci sto. Mi fermo e rifletto. Come posso farcela da sola? Che alternativa c’è al pensiero piatto?

La gente ha smesso di pensare da sola, credo, e lo fa maggiormente con l’aiuto della televisione. La gente parla di tv, usa il linguaggio che ascolta in tv, si fonda con essa e da essa giudica il mondo. Si veste e si comporta come i protagonisti della tv. In tv si urla, si litiga, si compete a chi deve dire più scemenze, a chi ha più botulini, a chi ha fatto più sesso durante la settimana. 

La gente imita i modelli proposti e imposti dalla tv: la donna è merce, è artefatta, è nuda ma non udita; l’uomo è maschilista e deride la donna pubblicamente, tra gli applausi concitati di un pubblico demente. E così anche su altri questioni: dilaga la paura dello straniero, perché si racconta dei soli rom che stuprano una ragazza per strada, mentre ci si tappa le orecchie quando dal piano di sotto sentiamo il pianto disperato di una donna italiana picchiata a sangue dal suo compagno italiano. 

E anche per le altre infinite questioni che animano l’opinione pubblica di tutto il mondo, la tv, e i media in genere, ci martella continuamente l’idea che gli altri sono corrotti e disumani, noi siamo incolpevoli invece, in modo tale che a furia di cibarci di queste prefabbricate menzogne la capacità di autocritica e autodenuncia cede il posto alla distruttiva tendenza all’autoassoluzione, alla rassegnazione, alla deresponsabilizzazione. 

Ma perché, mi chiedo disperata, non siamo più capaci di pensare con la nostra testa? Perché ci siamo rubati il nostro tempo, mi dico. La gente comune non ha mai tempo, perché dopo una martoriante e frenetica giornata lavorativa nella quale, come gli schiavi-macchine non ha avuto neanche un secondo per vedere la luce del sole o per fermarsi un attimo a riflettere se è felice o meno, ecco che si siede a tavola totalmente alienata e in stato di trance e in modo robotizzato accende la tv, mangiandosi un disgustoso piatto precotto della Findus condito da tante belle news sfornate per lei, fatte giusto appuntino per far si che continui a pensare da stupida, a non pensare proprio anzi, a essere solo un gregge di pecore. E per digestivo ecco che vien servito uno stimolante Reality Show, nel quale, durante la pausa pubblicitaria, si può dare una sbirciatina al fantastico mondo di Vespa.

Ed io non ci sto. Discuto con mia madre quando, mentre si chiacchiera su argomenti di varia natura, ecco che se ne esce con un “la tv ha detto…” o “in tv ho visto…” . E no, mamma, le suggerisco, perché non provi a dire, “IO PENSO…”. Così, a furia di fermarla ogni qual volta si appella a quell’intercalare maledetto, i suoi occhi s’illuminano e la mente si mette in moto. E così discuto con il mio coinquilino del sud che esulta di gioia quando sente la notizia di un gruppo di ragazzi che ha messo fuoco e fiamme a un campo nomade. Gli dico che da qualche parte dispersi nel mondo ci saranno i suoi parenti che, tempo addietro, avranno fatto armi e bagagli e son partiti in terre lontane per essere maltrattati, sfruttati, odiati e uccisi dalla gente del posto accecata di odio. E discuto con tutti quelli che credono di saperla lunga, che si esaltano raccontando le solite e ripetute filastrocche degli altri senza esser capaci di esprimere la propria opinione. Io non ci sto e gli dico: ok, ma cosa pensate veramente VOI su quest’argomento?

Trovo gente inaridita, appiattita, banale, priva di autostima, chiusa nella propria torre d’avorio di appartenenza. Gente omologata nel vestire, nel consumare, nell’andare in vacanza, nel divertirsi, nel creare cultura, nel credere che se non lavori sei un disadattato e un disastro per la società. Gente dello stesso stampo che corre e corre e non sa in che direzione sta andando, non ha più il controllo della propria vita, anzi è estranea a essa, l’ha sostituita con quella degli altri, con quella vista nei reality o nei programmi trash alla Maria De Filippi o in qualche altro eroe mediatico, e la lista non finisce qui. 

Io non ci sto. Io mi fermo. Non voglio che i miei pensieri corrano alla velocità della luce. Non voglio che mi dettino cosa devo comprare, cosa devo fare, chi devo votare, quanto posso bere, che musica devo ascoltare, dove devo andare, come devo essere per avere successo, che devo correre e correre, consumare e consumare, avere il più possibile, che il tempo va troppo in fretta e per questo devo sbrigarmi a raggiungere la felicità prima che sia troppo tardi. Ma quale felicità? Questa è pura fabbricazione dell’infelicità. Questa è la morte dell’anima. Ed Io non ci sto. Io non voglio essere un burattino infelice, io voglio essere viva, mi dico, voglio poter vivere la mia intimità senza dover fare quello che fanno gli altri. Io voglio capire cosa sto facendo anzi, rifletterci su, razionalizzare le mie azioni, essere come dico io, ragionare con la mia testa, perché posso, ne sono capace. È un mio diritto avere il tempo per capire se la vita si sta deformando, è un mio diritto avere tempo per trovare rimedio prima di cadere in letargo, per fermarmi prima di pormi, come tutti i giovani si chiedono, la dannosa domanda che calpesta la nostra autostima “Sono qualcuno io?”. Io non voglio essere nessuno, voglio essere solo me stessa, è un mio diritto, e voglio avere il tempo per partecipare, per contrastare, per lottare, per resistere di fronte a una società assorbita, distratta e sempre più dirottata verso contenuti e pensieri preconfezionati, una società che da quando vieni al mondo ti martella con l’idea che tu non sei nessuno, che la tua parola non conta nulla se non hai bellezza, ricchezza, potere, visibilità, conoscenze importanti. Io voglio essere differente. 

Non voglio correre come un automa. Così decido di andare a folle. E rifletto lentamente per incontrare me stessa, per amarmi, per sentirmi degna.

E così canto il mio inno liberatorio. La differenza è la resistenza. Ogni giorno della mia vita provo a cambiare direzione, a pensare e a pensarmi criticamente, a rinnovarmi, a buttare giù vecchie credenze per quelle nuove, a confrontarmi con gli altri anche con chi è completamente diverso da me, con i tanti colori della pelle, con le diverse religioni, in famiglia, all’università, con i coinquilini, con il mio ragazzo perché poi loro si confronteranno con la propria rete di persone, e questa rete si riconfronterà con un'altra rete e così via. Ogni giorno, e non nego di ritrovarmi spesso nelle tante trappole dell’omologazione, lotto con tutta me stessa affinché in un futuro riesca a costruire delle relazioni forti con i miei figli, affinché insegni loro ad amarsi, a vivere felicemente la propria intimità, a sentirsi liberi, a riflettere sui loro diritti, a lottare contro i tanti ricatti, a curare la loro anima, a non privarsi del loro tempo, ad andare a folle in modo che non arrivino mai a tormentarsi con l’autodistruttiva domanda: ma io sono qualcuno?

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